Abbiamo incontrato Raffaele Minichiello, il marine reduce del Vietnam con una storia incredibile da raccontare.

51xbgorykxlNei giorni dell’apertura di questo blog ho ricevuto un messaggio da Valentina, una mia carissima amica. «Leggi questa trama per favore, poi ti dico chi è» diceva, ed era accompagnato da un link (questo) rimandante alla scheda descrittiva di un libro intitolato Il marine: Storia di Raffaele Minichiello, il soldato italo-americano che sfidò gli Stati Uniti d’America.

Raffaele è un italiano emigrato giovanissimo dall’Irpinia agli Stati Uniti. A diciott’anni entra nel corpo dei Marines e, non ancora ventenne, trascorre oltre un anno a combattere nel Vietnam, dove viene decorato per le sue azioni eroiche. Al ritorno in patria però, a causa di un torto subito, qualcosa si inceppa; improvvisamente quel Paese che lo aveva accolto e per il quale era disposto a sacrificare la propria vita, sembra rivoltarglisi contro e, per una questione di duecento dollari, Raffaele tenta di farsi giustizia da sé. La situazione precipita e rischia di trovarsi davanti alla Corte Marziale. Determinato a non farsi catturare, escogita un piano che ha dell’incredibile, un’azione che lo porta a dirottare un aereo di linea da Los Angeles a New York e da New York, con l’FBI che gli dà la caccia, proseguire fino a Roma, dove sequestra un’auto della polizia e continua la fuga ancora per qualche chilometro prima di essere arrestato.
Il caso assume contorni sempre più vasti, con il processo che si trasforma in un braccio di ferro tra Italia e Stati Uniti e con un ragazzo che, a soli vent’anni, diventa un simbolo per quella generazione che protesta contro la guerra del Vietnam.
Quella di Raffaele, che si dice abbia ispirato il personaggio di Rambo, è la storia di continue cadute e riscatti, disperazione e ripartenza “da solo contro tutto il mondo”, come si legge nella sinossi del libro.

«Ok, ho letto» ho risposto a Valentina, e lei «lavora come cameriere nel posto dove pranzo tutti i giorni». Non stava scherzando: conosceva davvero il Raffaele Minichiello protagonista del libro e io ho immediatamente deciso che dovevamo incontralo, sederci a un tavolo con lui e sentire tutta la storia dalla sua viva voce.
Ci sono voluti più di due mesi per far coincidere gli impegni di tutti, tempo sfruttato per leggere il libro e documentarci il più possibile in preparazione all’incontro, ma alla fine ci siamo riusciti.
Incontriamo Raffaele in un tardo pomeriggio di inizio giugno, proprio dove lavora. Con lui c’è Fabio, titolare del locale e suo amico personale da più di quarant’anni. Raffaele ci conquista già dal primo sguardo e, dietro ai suoi occhi profondi, non fatichiamo a riconoscere un uomo buono. Seduti intorno a un tavolo dopo l’orario di chiusura e con la luce calda del sole che filtra dalle finestre, iniziamo la nostra conversazione.

Dall’Irpinia all’America

Ripercorriamo la tua storia, a quattordici anni hai lasciato il paese dove sei nato per trasferirti negli Stati Uniti. Che cosa significa per un ragazzino lasciare l’Irpinia e arrivare in America, vedere New York e successivamente attraversare in treno un paese così vasto?

A quattordici anni non conoscevo niente, non avevo mai visto un film, non avevo mai visto la televisione e solo qualche volta avevo ascoltato la radio. Un paio di volte ero stato ad Avellino e solo una volta, passando da Napoli, mi era capitato di vedere il mare. Non avevo mai visto le fotografie e nessuno mai mi aveva spiegato cosa volesse dire New York, un palazzo di dieci piani o addirittura un grattacielo. Oggi il mondo è molto diverso, ma nell’Irpinia di più di cinquant’anni fa non c’era niente, non avevamo elettricità, acqua corrente e, solo da pochi anni, era arrivata la bombola del gas per avere un piccolo fornello in casa. Potete quindi immaginare un ragazzino di quattordici anni che non aveva mai visto niente, prendere un aereo e ritrovarsi nel centro di New York, con le luci, le macchine e le strade immense. Un altro mondo, che non avevo neanche mai immaginato.
In quella città avevamo qualche conoscenza e, dopo esserci fermati per poco più di una settimana, abbiamo preso il treno e attraversato tutti gli Stati Uniti per raggiungere Seattle. Per me era una cosa stupenda, incredibile! Il treno aveva due piani e dalle larghe finestre di quello superiore, ho potuto ammirare i panorami con fiumi, laghi e piccoli centri abitati.

Cos’era l’America degli anni ’60?

All’epoca gli italiani che emigravano negli Stati Uniti si concentravano soprattutto sulla costa est, mentre dove eravamo diretti noi, a Seattle, ce n’erano pochissimi. Le difficoltà sono state enormi per noi, io non conoscevo neanche una parola di inglese e sono stato trapiantato da un paesino in una scuola, la Foster High School, di settecentocinquanta studenti. La scuola aveva un campo di atletica leggera, uno regolamentare da football con tribune simili a quelle di uno stadio, una palestra per il basket che poteva accogliere mille persone e, insomma, potete immaginare come potesse apparirmi tutto questo.
Nella scuola non c’era nessuno che parlasse italiano e sono stato affiancato a Paul Carosino, un ragazzo di origini italiane con nonni genovesi, che avrebbe dovuto aiutarmi. Purtroppo Paul era un joker, uno a cui piaceva scherzare, e in realtà non parlava affatto la mia lingua.
Ho dovuto lottare tanto, a cominciare dalla scuola, dai compagni che non mi vedevano di buon occhio e non perdevano occasione per sfidarmi. Quando sento parlare di bullismo mi viene sempre in mente la faccia di un ragazzo che aveva due o tre anni più di me. Lui mi ha gonfiato di botte, ma anche io gliene davo. Ricordo un boschetto vicino alla scuola dove c’era una specie di buca e lì dentro, circondati dagli altri ragazzi come spettatori, andavamo a combattere. A scuola sono riuscito però a farmi anche qualche amico e ancora oggi sono in contatto con un paio di professori, uno di fisica e una di inglese.
Non abbiamo avuto aiuto di nessun tipo, non avevamo soldi, mia mamma era analfabeta e non poteva neanche lavorare. Ci siamo inseriti nel sistema americano con tanti sacrifici, nella povertà più assoluta e nella disperazione, senza l’aiuto di nessuno. Io vorrei che la gente potesse capire quando lo racconto, ma penso che al giorno d’oggi molte persone non riescano a comprendere tutto ciò; noi l’abbiamo vissuto e, prima di noi, altre persone l’hanno vissuto in modo ancora più duro.
A proposito di immigrazione ricordo nel ’56, quando avevo sette anni, gli italiani che dall’Irpinia partivano per andare a lavorare all’estero. Io ho parenti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Canada, dal Venezuela all’Australia, dalla Svizzera alla Germania a all’Inghilterra. Ricordo quelli che partivano per la Germania con un permesso di lavoro e si trovavano in realtà a fare gli schiavi, vivendo in venti in una stanza, all’interno di baracche, lavorando pesantemente.
Io e mia sorella con un vocabolario piano piano abbiamo iniziato a imparare un po’ di inglese per poter almeno rispondere quando ci domandavano qualcosa. In tutti gli anni che sono stato a scuola non c’è stato mai un professore o qualcuno che si è seduto vicino a me e mi abbia spiegato che, per esempio, bicchiere si dicesse glass, matita pencil, penna pen… niente di tutto questo. Piano piano, da soli, siamo riusciti a inserirci nella società.
Un amico di mio padre che aveva vissuto lì tanti anni prima, gli aveva dato un pezzo di terra che noi abbiamo lavorato coltivando cocomeri, meloni e granturco per poi andare a venderli al mercato di Seattle. Mia madre ha cominciato a lavorare facendo servizi in una scuola di suore e io, quando ancora studiavo, ho trovato lavoro in un supermercato. Così, poco per volta abbiamo tirato avanti.

Nei Marines

A diciassette anni hai deciso di diventare un marine. Dalle pagine del libro emerge chiaramente che l’addestramento non è stato certo una passeggiata. Puoi raccontarci qualcosa di quei giorni?

L’addestramento base dei Marines dura tre mesi ma, dal momento che la guerra del Vietnam aveva subito una svolta drastica con l’impiego di molte più forze armate, occorrevano uomini velocemente e non c’era tempo a sufficienza. Il tutto fu concentrato in soli due mesi.
Penso che abbiate visto tutti Full Metal Jacket, io ritengo che quello che viene mostrato in quel film sia solo il cinquanta percento di quello che in realtà è stato l’addestramento.
Volevo fortemente andare nei Marines, sapevo che era molto difficile, ma negli Stati Uniti è qualcosa di davvero importante. Ero a conoscenza del fatto che l’addestramento fosse molto difficoltoso, ma non pensavo fino a quel punto.
Il 3 maggio del 1967, esattamente cinquant’anni fa, sono partito in aereo da Seattle con altri tre o quattro ragazzi, abbiamo fatto scalo a San Francisco, dove ne sono saliti altri sei o sette e nel pomeriggio siamo atterrati all’aeroporto di San Diego, proprio al centro delle basi militari della Marina e dei Marines. All’interno dell’aeroporto abbiamo visto alcuni sergenti e ci siamo diretti verso di loro. Come siamo arrivati hanno iniziato a insultarci e a prenderci a calci, in mezzo alla gente, senza darci il tempo di capire cosa stesse succedendo. Fuori dall’aeroporto ci aspettavano gli autobus che ci avrebbero portati alla base. Durante il viaggio era assolutamente vietato parlare o muoversi, potevamo solo tenere gli occhi fissi davanti a noi e le mani sulle ginocchia; se qualcuno si muoveva, botte. Quella prima giornata andò avanti fino alle due di notte, senza troppi complimenti ci hanno rasato i capelli e riempiti di ordini, uno dopo l’altro, con tempi serratissimi, senza neanche avere il tempo di pensare. È una cosa provata scientificamente e la diversità con gli altri reparti sta proprio in questi tre mesi. Devono distruggerti psicologicamente e fisicamente per poterti ricostruire e inserire all’interno del reparto speciale.

Ti è capitato di voler mollare tutto?

E dove andavi? Non potevi, non potevi mollare. Qualcuno che cercava di scappare c’era, ma lo prendevano e lo mandavano davanti al plotone disciplinare. Lì erano dolori.

E tra voi reclute come vi comportavate?

Ci prendevamo a schiaffi. Ci facevano mettere in fila uno di fronte all’altro e ci si prendeva a schiaffi sempre più forti. Spesso andava a finire a sangue. Se qualcuno si rifiutava di prendere a schiaffi un compagno, veniva mandato a terra con un calcio e prendeva un sacco di botte.
Un’altra pratica era quella della pulizia maniacale del fucile; una volta che il fucile era tirato a lucido, con una scusa qualsiasi, la presenza di un granellino di polvere o una macchiolina in controluce, si prendevano i fucili di tutti, si buttavano nella sabbia e tutti dovevano ricominciare daccapo. Stessa cosa per la pulizia degli scarponcini: dopo una o due ore passate a pulirli, venivamo mandati a nuotare nella sabbia, con il risultato di dover rifare tutto il lavoro.
Andavamo a mangiare in fila per quattro percorrendo gli ottocento metri che ci dividevano dalla mensa, fermandoci anche cinque o sei volte a fare flessioni perché magari non avevamo marciato abbastanza bene. Se poi a tavola qualcuno non si sedeva in maniera perfetta e sincronizzata con il resto del gruppo, tutti saltavano il pranzo. «Ringraziate il vostro compagno» ci dicevano e potete immaginare le botte che prendeva il poverino dal resto del gruppo, quando veniva sera!
Al poligono di tiro ci facevano entrare anche in dieci nelle docce, non so come facessimo a starci, dieci ragazzi con tutto l’equipaggiamento a fare flessioni sotto l’acqua bollente.
Devo comunque dire che ha funzionato. Dopo due mesi massacranti si diventa fratelli, si resta uniti. Ho sentito che ora qualche pratica è stata eliminata, però questo è stato il mio addestramento e lo ritengo necessario per portare un uomo a certi livelli.

In Vietnam

Nel dicembre del 1967 è arrivato il tuo momento di partire per il Vietnam. Non ti nascondiamo il fascino che quella guerra esercita sulla nostra generazione che l’ha conosciuta solo attraverso i libri e il cinema. Sicuramente viverla in prima linea è stata una cosa molto diversa. Cosa significa combattere una guerra a migliaia di chilometri da casa? 

Dei circa due milioni e settecentomila americani che hanno partecipato alla guerra del Vietnam, penso che circa due milioni siano stati volontari. Sono andati a combattere perché credevano in quello che facevano e anche io ci credevo.
Il mondo era diviso in due schieramenti, gli Stati Uniti da una parte e l’Unione Sovietica dall’altra e, stando in America, credevo negli Stati Uniti e nella libertà. La libertà non è gratuita, bisogna combattere per ottenerla.
Paul, l’amico di scuola che inizialmente avrebbe dovuto aiutarmi con l’inglese, il venerdì sera mi invitava a casa sua dove mi capitava di ascoltare discorsi di politica; altre volte sentivo parlare lo sceriffo della contea, che spesso mi portava nel suo ranch, e poco a poco mi sono fatto la mia idea. Volevo andare nel Vietnam perché ero convinto di combattere contro il comunismo e per la libertà che credevo potesse esistere solo negli Stati Uniti.
Il 1968 è stato l’anno più difficile del conflitto e io mi trovavo proprio nella zona smilitarizzata, la più calda della guerra. Ci fu la cosiddetta offensiva del Tet, siamo stati attaccati e non abbiamo capito più niente, loro avevano i carri armati e noi solo le nostre armi, ma per qualche motivo gli Stati Uniti non ci lasciavano combattere.
Con quell’offensiva i vietcong pensavano di darci un duro colpo, ma alla fine la mazzata l’hanno ricevuta loro, perché li abbiamo decimati e in tutto il Vietnam del sud i vietcong sono praticamente spariti. Se noi avessimo attaccato dopo l’offensiva e invaso il Vietnam del nord, avremmo vinto la guerra, ma non ce lo lasciarono fare.
Ho letto libri di testo scolastici che dicono che noi rapivamo i vietcong. Niente di più falso! Combattevamo contro un esercito regolare, non contro dei contadini come spesso si sente dire, e le armi che avevano i vietcong erano superiori alle nostre; i loro kalashnikov erano superiori ai nostri M16, soprattutto se si considera il combattimento in boscaglia. Avevano l’RPG che ancora oggi è un’arma micidiale, la MG, più piccola e leggera della nostra M60, anche se la nostra era più potente ma, per il tipo di conflitto che combattevamo, loro erano senza dubbio meglio equipaggiati e più avvantaggiati.
Il mio secondo nome era deposito di munizioni ambulante: avevo minimo ottocento cartucce dell’M16, sei bombe a mano, una fumogena e una al fosforo, tremenda. Due razzi anticarro, due mine e, per finire, non mi mancavano mai due belle stecche di C4. Quando camminavamo mi stavano tutti alla larga. L’altro mio secondo nome era John Wayne.
Loro avevano armi migliori delle nostre e non avevano limitazioni nell’essere armati dall’Unione Sovietica e dalla Cina, che usavano a proprio piacimento paesi neutrali come il Laos e la Cambogia per inviare rifornimenti. Per loro perdere uomini non rappresentava un problema: «se voi ne uccidete dieci dei nostri e noi ne uccidiamo uno solo dei vostri, noi vinciamo e voi perdete». Non gli importava, mentre negli Stati Uniti ogni americano morto era un problema per l’opinione pubblica.
Ci attaccavano sempre, sapevano dove ci trovavamo, ma noi non sapevamo dove si trovavano loro, per cui dovevamo sempre cercarli ed erano loro a decidere quando attaccare. Nella boscaglia un plotone di cinquanta persone come il nostro era facilmente localizzabile: bastavano due o tre vietcong per scaricarci addosso una raffica di kalashnikov e uccidere tre o quattro persone; poi scappavano e noi eravamo bloccati perché non potevamo avanzare, non sapendo se si trattasse di una trappola o che altro.
Abbiamo combattuto e non abbiamo perso nessuna battaglia, con il solo aiuto dell’aviazione. Abbiamo combattuto con sacrificio e con dolore e questa cosa in tanti documentari non viene riconosciuta.
Io sono stato in Vietnam dodici mesi e venti giorni e non ho mai visto una sola atrocità contro i civili. Sono successe, ma io non ne ho mai viste da parte della mia compagnia e non ne ho mai sentite con le mie orecchie. Il mio libro potevo scriverlo contro gli Stati Uniti e sarebbe stato sicuramente un successo, ma non l’ho fatto, ho deciso di rimanere fedele ai fatti.
Una volta avevamo preparato un’imboscata al nemico e non abbiamo agito perché in quel momento si sono trovati a passare dei civili con donne, vecchi e bambini. Io lo capivo, anche se avevo solo diciott’anni, che facevamo qualcosa di assurdo contro questa gente, non li abbiamo trattati male, ma li abbiamo evacuati con i loro animali. Li abbiamo caricati sugli elicotteri e li abbiamo trapiantati da un’altra parte. Potevamo attaccare rischiando di ucciderli tutti, ma non l’abbiamo fatto. Il combattimento è così, non sai chi colpisci, spari in maniera confusa e poi vedi chi rimane a terra.

Come si affronta una giornata sapendo che potrebbe essere l’ultima? Ci si pensa?

Come no! È un pensiero con cui ci si abitua a convivere. Facevamo cose da pazzi, azioni nelle quali potevamo anche morire, ma l’istinto di sopravvivenza c’era sempre: non ho mai pensato di agire se sapevo che le possibilità di uscirne vivo erano nulle.
Mi è comunque capitato di trovarmi in situazioni molto pericolose. Una volta ad esempio, mentre eravamo sotto il fuoco nemico, stavo per buttarmi istintivamente nella mia buca per cercare riparo, quando, precedendomi di una frazione di secondo, ci è finito dentro un colpo di mortaio da 82 millimetri. Se mi fossi trovato all’interno della buca, di me non sarebbe rimasto nulla.

Cosa rimane di quell’esperienza cinquant’anni dopo averla vissuta?

Io sono contro la guerra. La guerra è un sacrifico enorme di tutti i tipi, una fatica immane; in guerra non dormi mai, scavi continuamente buche per ripararti dal fuoco nemico, porti pesi enormi, cammini per giorni e giorni senza mangiare e senza bere; sono però per la difesa: se tu mi attacchi, mi devo in qualche modo difendere. Allo stesso modo, sono contro la pena di morte, fin da ragazzino, da quando ho capito che cosa volesse dire pena di morte. Sono però per la difesa personale: se mi aggredisci, mi devo difendere, non devo ucciderti, posso non ucciderti, ma per difendermi ti ferirei a una gamba o una spalla.
Credo che la guerra sia assurda, ma c’è sempre stata e sempre ci sarà. Fa parte dell’uomo.

Ritorno a casa

Sappiamo che in occidente c’era una forte contestazione nei confronti della guerra in Vietnam e i reduci venivano spesso accolti con freddezza. Qual è stata la tua esperienza? Hai trovato indifferenza, freddezza o addirittura ostilità?

Freddezza e indifferenza. Ho fatto scalo all’aeroporto di San Francisco e da lì mi sono diretto a Seattle. Sceso dall’aereo non mi guardava nessuno, ho preso l’autobus e nessuno mi ha rivolto uno sguardo o una parola, nemmeno l’autista, e si vedeva che tornavo dalla guerra, lo sapevano. Molte persone sono state accolte anche peggio, hanno ricevuto sputi, insulti e botte. So che qualcuno è stato invece accolto bene.

Sapevi già quando saresti tornato?

Sì, dovevo fare dodici mesi e venti giorni fuori dagli Stati Uniti, tenevo il conto dei giorni, attendevo quel momento, ma non era detto che ci sarei arrivato. Sono andato in pattuglia fino agli ultimi giorni, poi sono stato prelevato da un elicottero, portato alla base dove ho consegnato il mio fucile e il giorno seguente sono partito per il Giappone, dove mi hanno tenuto altri tre giorni. Non dimenticherò mai il volo in elicottero dal quale ho potuto salutare tutti i miei compagni.

Si dice che la tua storia abbia ispirato First Blood, il romanzo da cui è tratto Rambo. Ti ritrovi nel personaggio del reduce incompreso e osteggiato che sfida apertamente la società Americana?

Più o meno è così. Nonostante non ci siano molte mie interviste, in Vietnam avevo un compagno che amava molto stare davanti alle televisioni e parlare con i giornali… arrivava sempre in prima fila per farsi vedere. Quando è successo il fatto del dirottamento, è andato a farsi intervistare da ogni radio, raccontando tutto di me in Vietnam; molti dettagli vennero fuori così. L’unica cosa che però possa farmi pensare che Rambo sia effettivamente tratto dalla mia storia, è la scena in cui il protagonista racconta piangendo di un suo amico morto in Vietnam, il quale non desiderava altro che una Chevrolet rossa. Io in effetti desideravo una Chevrolet Chevelle rossa, nel film hanno leggermente modificato il nome della macchina. Purtroppo non sono mai riuscito a parlare con Stallone, ma glielo chiederei.
Quando ho fatto ritorno negli Stati Uniti, a prescindere dall’accoglienza che possa avere avuto io personalmente, la gente sembrava non capire che non eravamo andati a combattere una nostra guerra personale o perché volessimo uccidere delle persone, ma avevamo combattuto per il nostro Paese.
Ho letto che nella Seconda Guerra Mondiale, un soldato americano partecipava in media a dieci giorni di combattimento in un anno. Pensate che nel Vietnam, in un anno, i giorni di combattimento sono saliti a duecentoquaranta. Dal momento in cui esci dal conflitto a quando fai ritorno a casa, passano cinque giorni; neanche una settimana prima dormi nel fango e poi, improvvisamente, sei a casa. Il tuo sistema nervoso certamente non ne gioisce e ci vorrebbe una sorta di rieducazione.
Nella Seconda Guerra Mondiale l’esercito americano utilizzava i cani, soprattutto contro i giapponesi, ed essendocene un continuo bisogno, molte persone donavano il proprio animale alla Nazione per essere addestrato e andare a svolgere operazioni di tipo militare. Ciò che è successo è che, a guerra terminata, i cani riconsegnati non riconoscevano più i padroni e in alcuni casi hanno persino attaccato uccidendoli, finendo poi per essere abbattuti. Pare che allora solo i Marines usassero rieducare gli animali prima di restituirli e questa procedura è poi divenuta comune negli anni successivi, anche per i cani utilizzati nella guerra del Vietnam. Perché per le persone no? Il corpo dei Marines ha rieducato i cani e non l’ha fatto con noi. Perché?
Gli Stati Uniti erano il mio paese e lo sono tutt’oggi; i compagni che ho perso in Vietnam sono miei e li porto dentro io. La bandiera degli Stati Uniti mi emoziona, mi sento americano, sono cittadino americano, eppure non ho ricevuto un buon trattamento. Quello che ho fatto l’ho fatto per una sciocchezza, non è stato il fatto dei duecento dollari, ma tutte queste cose messe insieme. Non giustifico il dirottamento aereo, è stato un atto sbagliato, non sono un criminale, ma è stato un atto criminale e ha ragione chi lo chiama in questo modo. È stata una cosa sbagliata e non giustificabile, in nessun modo, che non ho mai voluto o potuto giustificare. L’FBI, che mi voleva fare la pelle, era dalla parte giusta e io dalla parte sbagliata; capivo che gli agenti dell’FBI stavano facendo un servizio di sicurezza per il Paese, mentre io stavo facendo la cosa opposta. La polizia, che mi voleva ammazzare a Fiumicino, era dalla parte giusta e io dalla parte sbagliata, purtroppo però, in quel momento, io gli avrei sparato se avessero aperto il fuoco… anche se non volevo uccidere.
Nei Marines non ho mai avuto problemi. Avevo solo il limite della lingua, non che non comprendessi o non mi sapessi esprimere, ma capite che quando bisogna dare e ricevere ordini via radio durante un combattimento, non ci si può permettere di capire male… basta un solo numero riportato in maniera non corretta e si rischia di fare ammazzare un intero plotone. La carriera mi era quindi preclusa per via di questo handicap, ma per il resto tutto filava liscio, mai avuto problemi con nessuno.
Si è poi verificata una situazione che non ho saputo gestire, ho trovato una persona davanti, un ostacolo, e da lì sono iniziati i problemi.

Il dirottamento

In tutti questi anni ti sarai sentito ripetere infinite volte la stessa domanda. Non ti chiederemo quindi “perché l’hai fatto?”, ma vorremmo provare a capire cosa sentisse dentro di sé un ragazzo di vent’anni in quei momenti.

Quando ho dirottato l’aereo non pensavo di uscirne vivo. In Vietnam ho fatto cose pazze, anche se non credo di essere stato un eroe: ho semplicemente fatto il mio servizio e, se ho salvato la vita a qualche mio compagno, l’ho fatto perché lui avrebbe fatto lo stesso per me. Lavoravamo in questo modo, non lasciavamo indietro nessuno, anche a costo della vita. Questo era il nostro principio. Non mi importava di morire, mi importava solo l’onore e il fatto di essere stato arrestato, messo due giorni in carcere per quei duecento dollari, mi ha distrutto la vita. Quando poi sono rientrato alla base, il sergente maggiore e i miei compagni si sono dati da fare per me, hanno scritto lettere descrivendo chi fossi in realtà: un marine modello. Loro ne erano convinti e ci sono documenti scritti da altre persone che lo testimoniano.
La scorsa estate io e Fabio ci siamo recati negli Stati Uniti. Siamo andati a trovare il mio sergente maggiore, che ora ha ottantasei anni e vive in una casa di cura, e il mio comandante di compagnia in Vietnam. Va sottolineata la mentalità che esiste negli Stati Uniti: se commetti un crimine vieni tagliato fuori, non ti perdonano; tutti i miei compagni, i comandanti e gli ufficiali mi hanno invece accolto e abbracciato, ritenendo sbagliato quanto mi è accaduto.
Durante la guerra percepivo uno stipendio che depositavo sul conto corrente nella banca dei Marines. Un giorno, quando ero già tornato in patria, sono andato a controllare l’estratto conto, accorgendomi che mancavano duecento dollari. Ho cercato in tutti i modi di spiegare che quei soldi dovevano esserci e che non avevo sbagliato a fare i conti. Erano semplicemente spariti. Dopo avere ricevuto numerose porte in faccia, ho deciso di riprendermi ciò che credevo spettarmi di diritto così, una sera in cui avevo bevuto troppo, sono entrato nell’emporio della base e ho rubato merce per un valore di circa duecento dollari. Troppo ubriaco per poter scappare, mi sono addormentato sul posto, venendo poi colto in flagranza di reato la mattina seguente. Processato, sono stato punito con due giorni di detenzione.
Da quel fatto, come dicevo, solo con una persona ho avuto problemi. Quella persona non è stata in grado di valutare le cose in un certo modo, io non sono stato in grado di gestire la situazione ed è successo quello che è successo.
A quel punto morire era per me un onore. Non fraintendetemi: la vita è la cosa più bella che Dio ci ha dato, io credo in Dio e credo che la vita, il fatto di viverla, sia la cosa più bella che un uomo possa avere. Non dobbiamo mai mollare, in inglese si dice never give up, never quit, mai rinunciare, mai smettere di combattere per la vita, la cosa più bella, più sacra che l’uomo ha, ma io in quel momento ero anche disposto a sacrificarla. Quell’azione dovevo portarla avanti a qualsiasi costo, perché avevo deciso che davanti alla Corte Marziale non ci sarei andato. Non che avessi paura, cosa potevano darmi, trenta giorni? Altro non potevano farmi. Il giudice mi aveva cacciato via già una volta, aveva visto il mio fascicolo e mi aveva detto «ti lascio andare, ti voglio dare una possibilità». Una volta tornato alla base, mi sembrava che tutto fosse finito.
In Vietnam ho contratto per due volte la malaria e, tornato negli Stati Uniti, si è ripresentata una terza volta, costringendomi a ventuno giorni di ospedale… come potete vedere, nella mia vita sono sopravvissuto a tante cose.
Archiviato l’incidente di percorso, sono tornato a essere un marine modello, ho fatto il corso da paracadutista, ma questa persona ce l’aveva con me, dandomi addosso in ogni modo. Ho cercato di andarmene da lì, ho tentato di farmi trasferire presso l’ambasciata americana in Italia, davanti a me sono passate però persone che non conoscevano una sola parola d’italiano. Ho provato quindi ad andare a Guantanamo, ma anche lì niente da fare. In qualche maniera me la volevano far pagare.

E quindi, determinato ad agire, hai dirottato quell’aereo.

Durante il dirottamento, via via che i fatti si susseguivano e i problemi si presentavano, pensavo a come risolverli. Avevo previsto mille cose, addestrato com’ero a tante situazioni. Abbiamo fatto in tutto cinque scali per il rifornimento e cambiato pilota con altri due, esperti in voli intercontinentali.
Il dirottamento è avvenuto così: ho messo subito le persone in condizione di capire che non volevo far loro del male. Ho detto il mio nome, chi ero, cosa facevo e le mie intenzioni. «Obbedite ai miei ordini» ho detto «io non ho niente da perdere».
Sono stato molto convincente, non ho mai puntato l’arma e durante tutta l’azione è partito un solo corpo, all’aeroporto di New York, in un momento piuttosto difficile. Nonostante l’agitazione – insomma, non sono un robot – non ho mai perso il controllo e il colpo che avevo precedentemente messo in canna è partito in maniera accidentale, andando a finire sotto il soffitto; poteva partire ad altezza uomo, ma io tenevo l’arma verso l’alto.
Quelle sono state le fasi più concitate, l’FBI mi aspettava con cecchini pronti a sparare. Mi servivano altri due piloti per portare l’aereo fuori dagli Stati Uniti e ovviamente non potevo sapere chi mi avrebbero mandato. Avrebbero potuto essere agenti speciali e in quel caso o li ammazzi tu o ti ammazzano loro… il poliziotto deve fare il suo lavoro. Quando hai un’arma in mano devi saperla usare e se necessario devi usarla, altrimenti è meglio non averla affatto. Sono cose alle quali ero stato addestrato, le ho messe in pratica e tutto è andato bene. Conoscevo tecniche sia militari che poliziesche e l’FBI ha deciso di non attaccare l’aereo: sapevano che avrebbero perso tanti uomini, che dall’altra parte avevano una persona tutt’altro che sprovveduta, che sapeva il fatto suo. Quando si sono resi conto di questa cosa, si sono ritirati per non mettere a repentaglio la propria vita e quella dell’equipaggio. Data la situazione particolarmente tesa, siamo ripartiti senza rifornimento, fermandoci poi a Bangor, nel Maine, per il carburante.
Il volo che ho dirottato era un servizio notturno partito da Los Angeles con destinazione San Francisco. Inizialmente pensavo di arrivare solo fino a New York, con uno scalo al massimo, ma neanche mi importava: dovevo fare una protesta e certamente sarei morto. Le cose poi sono andate diversamente, abbiamo fatto scendere i passeggeri a Denver, siamo andati verso New York e successivamente abbiamo lasciato gli Stati Uniti. Avevo informato i miei ostaggi che avremmo volato fino al Cairo, loro hanno sgranato gli occhi e mi hanno informato che ci servivano almeno altri due scali, uno a Shannon, in Irlanda, e uno a Roma. Una volta sull’Atlantico l’atmosfera si è rilassata e abbiamo iniziato a parlare; questa è una parte della vicenda che mi piace molto e che potete trovare anche nel libro.
Io e il comandante eravamo seduti su due sedili vicini, divisi dal corridoio, e io tenevo il fucile sulle ginocchia. Mi parlava della sua famiglia, della casa che voleva acquistare e che sarebbe dovuto andare a vedere quel giorno, con sua moglie. Aveva fatto il servizio militare nell’Aeronautica e a un tratto mi ha chiesto «perché fai questo?» Gli ho spiegato tutta la faccenda e lui «non ti sembra una cosa assurda per duecento dollari?».
A un certo punto ho appoggiato la carabina a terra e sono andato in bagno. Ricordo che, mentre percorrevo il corridoio, mi sembrava di fluttuare; pensavo che il comandante ne avrebbe approfittato per ammazzarmi. Non so quanto tempo sia rimasto chiuso lì dentro, se dieci minuti o un’ora. Quando ho riaperto la porta, l’ho visto fermo nel punto in cui l’avevo lasciato. La sua testa bionda spuntava da dietro il sedile, insieme al sottile filo di fumo del suo sigaro. Mi sembrava di vederlo già col fucile in mano, pronto a fare fuoco.
«Perché non hai preso il fucile e mi hai sparato?» Sapeva come fare, aveva fatto il militare ed era chiaro che non avessi nient’altro addosso. Ero disarmato.
«Non sono un assassino. Mi dispiace solo di non averti conosciuto prima e di non poter fare niente per te» è stata la sua risposta.
«Io al tuo posto ti avrei ammazzato» ho detto io.

Dalle pagine del libro si intuisce che molte persone con cui hai avuto a che fare durante il tuo rocambolesco ritorno in Italia si sono in qualche modo affezionate a te. Pensi che ti avessero capito?

Hanno rilasciato delle interviste. Nella prima, al New York Times, hanno detto di me cose buone, parlando di una persona gentile, educata. L’hostess, soprattutto, ha dichiarato che secondo lei non avrebbero dovuto mettermi in carcere, ma rieducarmi, curarmi, perché era chiaro che avessi un problema. Sono convinto che non si sia trattato della cosiddetta sindrome di Stoccolma e con alcuni il rapporto è stato sincero.
Sempre la hostess, durante il processo ha sottolineato che mai le ho puntato il fucile addosso e a una rivista statunitense chiamata Jet, ha detto «questo ragazzo non lo dimenticherò mai, sarà nella mia vita per sempre.» Ricordo che in aereo abbiamo giocato a carte e pianto insieme, quando ero in prigione mi ha scritto, cercando di mettersi in contatto. Ce l’ho sempre qui con me.
Dopo quarant’anni lo stesso comandante ha però fatto di tutto per farmi arrestare. Nel 2008 c’è stata la riunione del nostro plotone e i Marines hanno invitato tutto l’equipaggio di quel volo a partecipare. Hanno rintracciato la prima hostess, quella che mi aveva accompagnato in cabina di pilotaggio e che poi era scesa a Denver insieme ai passeggeri. Anche il secondo pilota era presente, ma il comandante si è messo di traverso impedendo ad altri di venire all’incontro. So che l’ingegnere di bordo voleva venire, ma poi ha rinunciato.

Perché secondo te?

Non ne ho idea. Gli ho scritto senza mai ricevere risposta. Anche i miei compagni gli hanno mandato lettere, ma lui non ha mai voluto rispondere a nessuno. Ha invece scritto alla Homeland Security, al Senato degli Stati Uniti e al Sindacato dell’Aviazione dicendo che non era accettabile accogliermi in quel modo dopo tutto ciò che era successo. Eppure durante il dirottamento avrebbe potuto farmi qualsiasi cosa, sarebbe sicuramente diventato un eroe nazionale e il Presidente lo avrebbe ricevuto con una medaglia. Ha avuto persino problemi con L’FBI per avere ostacolato il lavoro dei cecchini: doveva distrarmi creando una situazione in cui loro avrebbero potuto facilmente spararmi, ma non ha voluto farlo. Ora purtroppo non c’è più, ma mi sarebbe piaciuto chiedergli tante cose.

In prigione

Alla fine è arrivata la prigione. Mentre aspettavi la sentenza definitiva, hai ricevuto molte lettere di sostegno. Come ti spieghi l’ammirazione che molti hanno dimostrato nei tuoi confronti?

Purtroppo la mente umana è bellissima, ma allo stesso tempo ci sono cose che non capiamo e sono semplicemente assurde. Qualsiasi cosa combinassi, anche la peggiore, avresti comunque delle persone che ti seguirebbero. Io me la spiego così.

Ritorno in America

A distanza di quarant’anni hai potuto finalmente tornare negli Stati Uniti. Nel libro viene descritto il ritorno nei luoghi della tua giovinezza. In un passaggio in cui si parla del nuovo complesso scolastico che sorge al posto della Foster High School, si dice che “gli americani non usano ristrutturare, radono al suolo e costruiscono di nuovo”. Credi che in qualche modo questa metafora possa adattarsi alla tua vita?

Eh sì, un pochino. Come vi dicevo prima, la vita è un dono meraviglioso e non bisogna mai rinunciare a vivere. La mia è stata una vita travagliata, ho perso la mia prima moglie di parto insieme al bambino e quello è stato un momento molto difficile. Pensavo di vendicare la sua morte, volevo prendere un convegno internazionale di importanti professori e ucciderli quasi tutti, insomma, il più possibile. Ero convinto di far del bene, avrei portato un cambiamento nella medicina mondiale e mi ero ridotto a vivere solo per quello che nella mia testa chiamavo Il Progetto.
Andavo al cimitero a trovare mia moglie due, anche tre, volte al giorno. Avevo un bambino di dieci anni che curavo e portavo a scuola e lottavo con mio suocero che me lo voleva togliere. È stato proprio in quel periodo che ho ricevuto in regalo il Nuovo Testamento. L’avevo ricevuto anche in Vietnam, tra il 23 e il 24 dicembre del 1967, l’avevo letto per quattro o cinque mesi, non riuscendone però a comprendere il significato, non riuscivo a interessarmi. Nell’85, dopo la morte di mia moglie, ho continuato a leggere questo Nuovo Testamento e successivamente mi è stata regalata l’intera Bibbia, ma in tutto questo il mio desiderio rimaneva la vendetta. Volevo portare un dolore pari al mio; all’epoca vivevo a Roma e avevo un distributore di benzina; se foste venuti lì e mi aveste chiesto da quanto tempo era morta mia moglie, vi avrei risposto con assoluta precisione da quanti mesi, quante settimane e quanti giorni. Ero ossessionato e la mia vita era interamente dedicata a questo. Conoscevo persone in grado di procurarmi le armi, avrei trovato un convegno e avrei colpito; sapevo che le mie caratteristiche mi avrebbero portato ad avere successo, anche se sarei sicuramente morto lì dentro. Generalmente, di tutte queste cose, non ne parlo mai con nessuno… ma vi tranquillizzo immediatamente: vi assicuro che in questo momento non ho in mente alcun progetto.
La lettura del Vangelo mi ha stravolto. In Luca 23, 34 quando Gesù sta morendo dice «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». Questo versetto è stato il mio incontro con il Signore e con la fede. Prima di questo versetto Gesù viene catturato, massacrato di botte, messo in croce e lui non si ribella mai. Lui è Dio, io credo fermamente in questo, poteva fare qualsiasi cosa, ma ha deciso di farsi maltrattare per me e per te, se lo vuoi accettare.
È stato un passaggio chiave per me, mi ha fatto capire che avrei solamente causato sofferenza a persone innocenti. Avevo perso mia moglie, una donna che amavo. È morta di parto con quel figlio che avevamo tanto desiderato, cercandolo per dieci anni e più, per colpa di qualcuno che non ha fatto il proprio dovere. È morta di embolia, l’ho portata in ospedale alle 6:45 di mattina, ho lasciato lei e mia suocera, poi sono andato a lavorare e quando l’ho rivista, alle 13:45, era morta. Mia suocera è stata lì davanti fino alle 12:45, ora in cui lei è morta, chiedendo decine di volte di poter entrare perché stava passando troppo tempo, non era normale. Si trovava lì a due metri di distanza, mia moglie si è sentita male ed è morta col bambino, e tutto perché non se ne sono accorti. C’è la testimonianza di una persona che si trovava vicina, c’è stata un’evidente mancanza e di questa mancanza io mi volevo vendicare per cambiare il corso della medicina. Questo avrei fatto!
Quel versetto mi ha cambiato, la mia stessa vita ha iniziato a cambiare e io ho iniziato a vedere le cose in modo diverso. Penso che le religioni non abbiano nulla a che vedere con Dio, semplicemente perché rispecchiano il mutare dell’uomo, e l’unica cosa che veramente ha a che vedere con Dio è la Bibbia. La Bibbia ti dà tutto ciò di cui hai bisogno per avere un rapporto con Dio. Lui ti dice «ci sono qui io, vieni e parli con me, discuti e litighi con me, io ti rispondo». Questa è stata la mia esperienza, mi sono reso conto che avrei fatto soffrire molte persone senza risolvere alcun problema.
Dopo tre anni, nel 1988 mi sono risposato con una donna della mia stessa Chiesa Evangelista, abbiamo avuto due figli e nel 1999, liberato da tutte le pendenze penali, ho potuto fare ritorno negli Stati Uniti. Riacquistati tutti i diritti, ho fatto quel viaggio con mia moglie e progettavamo di andare a vivere in America. Purtroppo nel 2000 abbiamo scoperto che lei aveva un tumore già allo stadio terminale; abbiamo lottato per sedici mesi, ma non siamo riusciti vincere. Ho perso mia moglie e sono rimasto con due figli di sei e dieci anni.

Conclusione

Pensi che la tua storia abbia qualcosa da insegnare?

La mia vita è sempre stata così. Purtroppo la vita è difficile, ma questo vale per tutti. La mia è stata condiziona da cose che ho fatto io e altre che non sono dipese da me. Oggi vedo tanta disperazione, ho letto che solo negli Stati Uniti oltre trentamila persone si tolgono la vita ogni anno e sono numeri spaventosi. Anche io mi sono trovato in quelle condizioni; prima di dirottare l’aereo la vita per me non aveva più valore, pensavo di farla finita, volevo ammazzarmi. Me ne stavo da solo, facevo lunghe passeggiate sulla spiaggia e pensavo a come per me il mondo fosse ormai privo di senso, tutto era finito perché non riuscivo ad accettare la mia condizione. Ecco, se vogliamo trarre un messaggio positivo dalla mia storia, è che comunque sia ci si deve rialzare. Nella vita si cade, si sbatte la faccia fino a farsi uscire il sangue dal naso, ma ci si rialza… ci si rialza e si comincia a lottare un’altra volta, poco a poco si riprende a costruire la propria vita.

Avremmo voluto chiedere tante altre cose a Raffaele che, come un fiume in piena, ci ha coinvolti nel racconto della sua vita, parlando con estrema disponibilità anche di cose molto personali. Purtroppo altri impegni hanno riportato ognuno alle proprie faccende, ma l’ora e mezza passata in sua compagnia è stata estremamente appassionante. Mentre ci salutiamo, Raffaele snocciola ancora qualche aneddoto, parla vivacemente di politica americana e, quando gli chiediamo cosa l’abbia portato a vivere a Milano, ci lascia intendere che tanti altri aspetti della sua storia attendono ancora di essere svelati… torneremo sicuramente a fargli visita!

 

5 pensieri su “Abbiamo incontrato Raffaele Minichiello, il marine reduce del Vietnam con una storia incredibile da raccontare.

Lascia un commento