Il fantasma dell’Olympic (e forse del Titanic)

Vista la piega “marittima” che ha preso il blog con l’ultimo articolo di Mauro, vorrei rilanciare con qualcosa a tema. Se si parla di grandi navi storiche, non c’è persona al mondo credo la cui mente non vada almeno per un attimo alla più famosa di tutte: il Titanic. È quasi un’equazione elementare, d’altronde bisogna dire che col passare del tempo il leggendario transatlantico non ha perso nulla del suo inesauribile fascino.

Grazie al cielo questo articolo non tratterà l’argomento Titanic, ma si limiterà a toccarlo di striscio. Vi posso assicurare che i danni possono comunque essere notevoli, come una volta un iceberg ha già dimostrato.

Un po’ di storia: la RMS Olympic fu la prima di un trio di navi gemelle costruite tra il 1908 e il 1915 dalla compagnia di navigazione britannica White Star Line. Le altre due furono la RMS Titanic e la RMS (poi HMHS) Britannic. Diciamo subito che né Titanic, né Britannic ebbero lunga vita, essendo la prima naufragata durante il viaggio inaugurale e la seconda, convertita in nave ospedale durante la prima guerra mondiale, affondata a nemmeno un anno dall’entrata in servizio dopo aver urtato una mina subacquea. L’unica sopravvissuta rimase l’Olympic, che venne dismessa e smantellata a metà degli anni ’30.

L’Olympic (sulla sinistra) e il Titanic (sulla destra) fotografati a Belfast

Pur avendo ognuna la sua peculiarità, è indubbio che la scena l’abbia sempre rubata la sorella di mezzo, verso la quale l’interesse del pubblico è sempre stato maggiore; interesse che dopo 108 anni è ancora più vivo che mai. Storici e appassionati tuttavia non hanno sempre avuto vita facile nel ricostruire l’aspetto degli ambienti interni del Titanic, in quanto il materiale fotografico a disposizione scarseggia. In quest’operazione giunge però in aiuto l’Olympic. Si sa infatti che le due navi erano grossomodo identiche, basti pensare che spesso foto e filmati che si ritengono essere del Titanic, ritraggono in realtà l’Olympic. Qui di seguito alcuni tra gli esempi più famosi.

Ciò che davvero differenziava il Titanic era il lusso nettamente superiore dei suoi arredi. Per farci un’idea leggiamo le parole di Charless Burgess, panettiere che per la White Star Line lavorò a bordo di Olympic e Titanic e per la Cunard Line (la principale compagnia concorrente) a bordo di Majestic, Mauretania e Queen Elisabeth:

«Era come l’Olympic, sì, ma molto più lussuosa. Prendete per esempio la sala da pranzo: l’Olympic non aveva nemmeno un tappeto, mentre sul Titanic si affondava fino alle ginocchia. E i mobili: così pesanti che si potevano sollevare a fatica. E i rivestimenti… Potranno costruire delle navi più grandi e più veloci, ma difficilmente saranno altrettanto curate. Era bella, era una magnifica nave.»

– Tratto da “Titanic: la vera storia”, di Walter Lord

Questa testimonianza sottolinea che la sorella maggiore può essere utilizzata come riferimento, una base da cui partire per potersi fare un’idea, ma il lavoro è ancora arduo. Inoltre, anche dando per certo che alcuni dettagli fossero uguali sulle due navi, questo prezioso materiale ha un problema di fondo: è tutto in bianco e nero. Come si fa se si vuole risalire al colore originale? Molto semplice, si organizza una spedizione al relitto del Titanic e attraverso mini sottomarini telecomandati e dotati di videocamere ci si addentra nelle viscere del transatlantico, sperando che i dettagli che cerchiamo non siano nel frattempo stati erosi dai batteri. A parte gli scherzi, questa è un’ottima soluzione, ma pur restando a terra c’è qualcosa di molto più pratico. Ci si reca cioè al White Swan Hotel di Alnwick, una piccola cittadina nel nord dell’Inghilterra.

Quando tra il 1935 e il 1937 la RMS Olympic venne smantellata, il proprietario del White Swan di allora, tale Algernon Smart, ebbe la folle intuizione di comprare parte degli interni e di integrarli nei lavori di rinnovamento dell’edificio. Abbiamo così numerosi pannelli di quercia che rivestono le pareti, tutti provenienti dalla lounge di prima classe decorata in stile Luigi XV, finestre con vetrate, un soffitto, diversi specchi, un camino di marmo e parte della scalinata di poppa, del tutto simile, anche se di dimensioni più contenute, a quella del Titanic. Infine, entrando al White Swan Hotel si attraversano porte girevoli che altro non sono che l’ingresso al ristorante di prima classe.

Questo tipo di porta non era presente nel ristorante del Titanic, in quanto i ponti superiori del Titanic avevano maggiori porzioni coperte e le porte girevoli, utili a non fare entrare la brezza marina nel ristorante, non servivano. L’aspetto più emozionante però è che le stesse maestranze realizzarono gli ambienti più lussuosi di entrambe le navi, utilizzando gli stessi materiali e seguendo i medesimi progetti. Ecco perché l’hotel di Alnwick è una chicca in infusione per gli studiosi dei due transatlantici e una gioia per gli occhi se si vuole respirare l’atmosfera di un viaggio per mare durante la Belle Époque. Il fantasma dell’Olympic vive sicuramente qui e forse anche quello della sua sorella più sfortunata.

Se questa mania di prendere parti di navi ormai in disservizio per arredarci altre cose vi turba tanto quanto turba il sottoscritto, vi consiglio di non leggere questo articolo: Le porte del Normandie.

Video blog dalla Terra di Mezzo

Bentrovati cari lettori. Recentemente, navigando senza una meta precisa su quella piattaforma demoniaca che è YouTube (o YouZuul come avevo già raccontato qui) mi sono imbattuto in una cosa a dir poco sconcertante. Pensate che non ho nemmeno avuto il coraggio di comunicarlo immediatamente al mio socio Mauro, come solitamente è prassi, ma ho dovuto lasciar decantare il tutto per qualche giorno.

Ebbene amici, il fatto è questo: il noto regista neozelandese Peter Jackson possiede un canale YouTube. Mi rendo conto che la cosa può lasciare indifferenti, voglio dire, chi al giorno d’oggi non ne ha uno? Avete ragione e aggiungo che il canale non è nemmeno aggiornato, dato che l’ultimo video risale a più di quattro anni fa. Dove sta allora la notizia? Ecco, ai tempi della lavorazione della trilogia de Lo Hobbit, il nostro amico fuori di testa ha pensato male di tenere un video diario attraverso cui aggiornare i suoi fan con video della durata di una decina di minuti l’uno, facendo vedere ogni sorta di curiosità riguardo la pre produzione, la produzione e la post produzione dei film. Sì lo so che i film della suddetta trilogia non sono certamente tra i più riusciti e sono nettamente inferiori a quelli de Il Signore degli Anelli, ma vi garantisco che questi video sono comunque da strapparsi i bulbi oculari! Il mio consiglio ovviamente è di non guardarli mai, ma se proprio volete farvi questo atto di autolesionismo, sappiate che ne sarà valsa la pena. In particolare il video diario in cui si vedono i sopralluoghi per le location esterne in Nuova Zelanda sono da non dormirci la notte… ah, poi vi capiterà di vedere apparire a tradimento personaggi come Gandalf, Frodo, Legolas e Saruman, ma tanto sono certo che seguirete il mio consiglio e ne starete alla larga.

Detto ciò, ecco qui la prima puntata del diario e, a seguire, l’elenco delle altre:

Tre anni di Mesedos!

E così, in un clima che non è decisamente dei migliori, ci troviamo a celebrare il terzo anniversario della fondazione del nostro blog. Anche se ultimamente abbiamo rallentato il ritmo con cui pubblichiamo i nostri articoli, ci sembra l’occasione giusta per tirare un po’ le somme e ripassare i dieci che in quest’ultimo anno vi hanno interessato di più. Perché proprio dieci? Così, per dare al tutto un’aria vagamente ufficiale. Eccoli qui allora cari lettori e alla prossima!

  1. Lo strano tombino
  2. Lo schiaffo della settimana #99
  3. Gli eschimesi alla Maggiolina
  4. Lo schiaffo della settimana #82
  5. Lo schiaffo della settimana #94
  6. Si scia sulla spazzatura
  7. Lo schiaffo della settimana #88
  8. Droxford Railway Station, l’illustre sconosciuta
  9. Lo schiaffo della settimana #100
  10. Mortsafes, la sicurezza prima di tutto

A spasso per le università americane, 1 episodio: Berkeley

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in un articolo (questo) che parlava di un libro fotografico sulle confraternite universitarie americane e, leggendolo, ho scoperto che il fotografo che ha realizzato gli scatti, li ha ottenuti frequentando gli studenti dell’università di Berkeley, in California. Questo mi ha spinto a riprendere la vecchia bozza di un articolo lasciata per alcuni mesi nel cassetto intitolata per l’appunto A spasso per le università americane e a darle una forma definitiva. L’articolo è il primo di una serie di quattro in cui vorrei raccontare le impressioni che ho avuto visitando quattro diversi campus universitari durante i miei viaggi oltreoceano. Ora, chi conosce un minimo la società americana sa che queste scuole sono vere e proprie istituzioni che vanno ben oltre la formazione degli studenti. Spesso riuscire a entrare nelle più prestigiose di queste università significa avere un ottimo biglietto da visita per la propria futura carriera, senza contare il senso di orgoglio e appartenenza che unisce gli studenti e che va dallo sport alle attività politiche. Il fascino che mi ha spinto a curiosare all’interno di questi campus è stato quindi per me irresistibile.

Partiamo dunque con la prima tappa. In una soleggiata mattina di inizio settembre io e Pippo, mio compagno di avventure statunitensi, prendiamo la linea BART (Bay Area Rapid Transit) e da Oakland ci dirigiamo a nord. Poche fermate e siamo a Berkeley, cittadina della Bay Area famosa appunto per ospitare la University of California. Appena riemersi in superficie ci rendiamo subito conto del clima piacevolmente studentesco che si respira nella zona e anche il contesto è molto piacevole; l’università si trova sulle colline e i suoi edifici sono immersi nel verde. Cercando con scarso successo di mimetizzarci tra gli studenti che si dirigono all’ingresso del campus (ormai l’età avanza inesorabilmente anche per noi) iniziamo il nostro tour. La prima struttura di una certa importanza in cui ci imbattiamo è il palazzetto in cui gioca la squadra di basket e qui parte subito la prima suggestione; è sufficiente pensare al ruolo determinante che i college hanno nella carriera di un atleta per rimanere affascinati dai campi da gioco presenti nelle università. Subito dopo ci immergiamo in un boschetto di eucalipti in cui scorre un corso d’acqua e una serie di cartelli indicano le direzioni da seguire per raggiungere i diversi college e facoltà. Noi tiriamo dritto e raggiungiamo Upper Sproul Plaza, uno spiazzo in cui alcuni studenti per una raccolta fondi stanno organizzando i banchetti di quella che sembra una vendita di vestiti di seconda mano.

Altri ragazzi studiano, fanno colazione o semplicemente si godono il sole. Per non essere da meno passiamo anche noi in una caffetteria e, poco più in là, passiamo attraverso uno dei simboli di Berkeley – vale a dire Sather Gate, un portale in bronzo e metallo risalente al 1910 – addentrandoci nel cuore del campus; di tanto in tanto curiosiamo negli edifici, tra studenti che si recano a lezione o che controllano bacheche stracolme di annunci di vario tipo. Si prova una certa emozione a percorrere le stradine di Berkeley, il cui ruolo è stato di primo piano per la storia del secolo scorso. Gli scienziati di Berkley contribuirono ad esempio allo sviluppo della bomba atomica, i suoi ricercatori isolarono il virus della poliomielite e trovarono il vaccino contro l’influenza ; sempre Berkeley, è stato scenario di importanti movimenti studenteschi che negli anni ’60 segnarono passi fondamentali nello sviluppo di una nuova società.

Proseguendo il tour passiamo di fianco all’imponente Museo di Paleontologia, notiamo l’iconica struttura del campanile nel centro del campus e ci fermiamo a osservare gli edifici dedicati alle scienze naturali. Quando usciamo e ci dirigiamo verso la metro la mattinata volge ormai al termine e gli studenti affollano le numerose caffetterie che danno sulle strade nei dintorni del campus. Personalmente rimango affascinato da questi giovani e mi domando quali future figure di spicco si nascondano tra loro. Nell’attraversare il quartiere pieno di vita, che ha tutta l’aria di essere in simbiosi con l’università, rimango piacevolmente colpito da un’energia positiva e vorrei violentemente tornare sui miei passi per iscrivermi a una qualsiasi facoltà!

Lo schiaffo della settimana #100

Ebbene sì, cari lettori, siamo giunti al centesimo schiaffo e, dopo quasi due anni di sberle ininterrotte, pensiamo sia giunto il momento di passare ad altro, dedicando più tempo ed energie agli articoli più classici. Non c’è ovviamente nessun motivo di temere, questo non significa che non abbiamo più voglia di malmenarvi! I calcioni rotani in faccia sono sempre dietro l’angolo.

Allora, schiaffo numero cento! Iniziamo con un contesto da vomito: Los Angeles, 1968. Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys, sta guidando per le strade di Malibù, quando nota due donne giovani e carine fare l’autostop. Wilson le carica in macchina e, siccome è un signore, le porta a destinazione senza provarci con loro. Qualche giorno dopo la scena si ripete e Wilson le carica nuovamente in macchina. Le due ragazze non hanno ovviamente fissa dimora e questa volta Wilson decide di invitarle a casa sua. Queste accettano di buon grado e, non solo si recano a casa del musicista, ma vi si stabiliscono in pianta stabile. E non solo loro due; al ritorno dallo studio di registrazione, Wilson trova che le due hanno portato a casa una dozzina di persone in tutto, tra cui un tale di nome Charles Manson. È l’inizio di un incubo.

Sulle prime Dennis è affascinato dall’uomo che, oltre ad esercitare un enorme fascino su chiunque lo incontri, dimostra di possedere un discreto talento musicale. Lo invita quindi in studio coi Beach Boys e Manson ne è entusiasta, coltivando da tempo il sogno di avere successo in campo artistico. Lo presenta anche a una serie di amici, tra cui Terry Melcher, che poco dopo affitterà la sua casa situata in Cielo Drive al regista Roman Polański e alla moglie e attrice Sharon Tate. La fine, nell’agosto del 1969, è tristemente nota.

Non passa però molto tempo prima che Wilson si accorga di essersi cacciato in una brutta situazione. Manson è invadente, violento e mostra segni di forte squilibrio mentale, per cui lo invita a lasciare casa sua ma. Per tutta risposta quello gli comunica che non ha alcuna intenzione di andarsene e, anzi, sarà lo stesso Wilson a dover lasciare casa propria. Un po’ vittima dell’enorme carisma del criminale e un po’ impaurito, questo accetta. Solo tempo dopo, quando Manson e la sua Family troveranno una nuova sistemazione al celebre Spahn Ranch, il musicista potrà fare ritorno, trovando tra l’altro un proiettile nella cassetta della posta, qualora gli fosse venuta l’idea di provare a denunciarlo.

Successivamente all’arresto di Charles Manson e di alcuni membri della sua banda, Dennis Wilson ne prese le distanze, rifiutandosi però di testimoniare contro di lui al processo. «Ero ancora troppo spaventato» spiegherà in seguito, annunciando che prima o poi avrebbe raccontato tutta la verità in un libro, compreso il vero motivo per cui Manson ha fatto quello che ha fatto. Non ne avrà mai l’occasione, morendo nel 1983 a soli trentanove anni.

E le incisioni coi Beach Boys? Ci dev’essere un sacco di materiale registrato mentre Manson si trovava in studio ma, come è facile intuire, nessuno in seguito pensò di renderlo pubblico. Tranne un pezzo, una canzone intitolata Never learn not to love, scritta proprio da Manson col titolo di Cease to exist e ripreso dai Beach Boys che la pubblicarono sull’album 20/20 del 1969, non citandolo mai come vero autore del brano.

Lo schiaffo della settimana #98

È il 1965 e il Beatles, travolti da un enorme successo, si stanno preparando a girare Help!, il loro secondo film. John Lennon è impegnato a scrivere una delle canzoni che andranno a far parte della colonna sonora e dà segno di essere particolarmente ricettivo degli stili musicali altrui; in quel periodo è infatti affascinato dal folk di Bob Dylan e decide di far suo lo stile scarno ed essenziale. Ne risulta un brano intitolato You’ve Got to Hide Your Love Away che, affettivamente, ha in sé l’eco del cantautore americano.

Ma chi conosce i Beatles sa che spesso e volentieri le loro creazioni nascondono più chiavi di lettura e i messaggi dietro a ogni testo possono essere molteplici. Qui infatti verrebbe da chiedersi chi dovrebbe nascondere il proprio amore e da chi.
Una prima interpretazione vorrebbe che Lennon parlasse a sé stesso. Era infatti sposato con Cynthia Powell e soffriva il fatto che, in quanto beatle, non gli fosse concesso di sbandierare in pubblico il proprio legame affettivo, né di scambiarsi effusioni con quella che dopotutto era sua moglie, come se avesse potuto in qualche modo “tradire” l’amore delle fan.
Secondo un’altra versione la canzone parla sì di sé stesso, ma in chiave più cupa. Lennon infatti soffriva molto la pressione che far parte della band di maggior successo della storia comportava. Non mancavano episodi di paranoia e senso di isolamento, ma di questo non poteva parlarne.
Una terza versione, per certi versi la più accreditata, vede in Brian Epstein il vero destinatario della canzone. Il manager dei Beatles era infatti omosessuale e, in un periodo in cui le lotte di liberazione omosessuale erano ancora di là da venire, vivere appieno i propri sentimenti non era certo facile.

Come spesso accadde per molti dei loro pezzi, i Fab Four non hanno mai chiarito il vero intento del brano e anzi hanno fatto sì che diventassero veri rompicapi. Un’idea di quanto questo li divertisse la dà il seguente aneddoto: registrando You’ve Got to Hide Your Love Away Lennon fece un errore, cantando “feeling two foot small“, anziché “feeling two foot tall“. Qualcuno glielo fece notare e per tutta risposta lui disse: «Lasciamola così… tutti quegli pseudointellettuali impazziranno.»

Lo schiaffo della settimana #96

Buongiorno cari lettori, come state? Rientrati dalle ferie? Mentre vi avviate a riprendere il solito tran tran, vi proponiamo una fuga verso una meta, per così dire, esotica. Ricorderete che qualche tempo fa (non aprite questo articolo) vi abbiamo parlato dell’osceno mondo delle ferrovie americane; bene, oggi torniamo a bomba in quell’abisso di follia per servirvi una nuova chicca.

Nell’epoca d’oro dei trasporti su rotaia erano numerose le linee che servivano gli Stati Uniti, coprendo in modo capillare ampie porzioni degli sconfinati territori. Si trattava di linee indipendenti tra loro e gestite da compagnie diverse, prima che i tempi cambiassero e le poche società superstiti accorpassero le restanti sotto la propria bandiera. Tra le varie linee dicevamo, ce n’era una che partiva dal Missouri e, passando per il Kansas, vi portava in Texas, come un coltello che si infila nel sud degli Stati Uniti. La Missouri-Kansas-Texas Railroad, abbreviata in MKT, in origine era anche detta The K-T e, per via di quell’abitudine tutta americana di dare nomi di persona alle cose, non tardò a guadagnarsi il nomignolo di The Katy. Nel linguaggio comune, spostarsi in treno su quella linea equivaleva quindi a “prende The Katy“. Sento del brusio e vedo già delle mani alzate. Bravissimi, il blues si sta impadronendo di voi e state vedendo la luce. Nel 1968 Taj Mahall scrive un pezzo destinato a rimanere indelebile nella storia di questo genere; il testo parla di una lei che scappa saltando sul primo treno, lasciando uno sfortunato lui con nient’altro che un mulo da cavalcare e il suono è ovviamente quello del sud, implacabilmente attraversato da quelle rotaie. E come le tessere di un puzzle che improvvisamente si incastrano a formare un meraviglioso quadro schiaffeggiante ecco che il titolo diventa She caught the Katy and left me a mule to ride. Ora, probabilmente il brano lo conoscente per essere parte della colonna sonora di The Blues Brothers. A John Belushi piaceva infatti così tanto (pare fosse addirittura  il suo pezzo blues preferito) da volerlo inserire proprio all’inizio del film, nella scena in cui il suo personaggio esce di prigione. Come dicevamo, la crisi della ferrovia costrinse al fallimento molte compagnie che vennero accorpate sotto altre bandiere e la MKT, The Katy per l’appunto, negli anni ’80 passò sotto la Union Pacific. Nel 2005 però una meravigliosa operazione di omaggio alle più iconiche linee ferroviarie statunitensi, spinse la Union Pacific a rivestire alcune delle sue locomotive – normalmente gialle con la bandiera a stelle e strisce – con la livrea delle gloriose linee del passato ed ecco che la locomotiva numero 1988 (anno di acquisizione) tornò a essere The Katy.

Lo schiaffo della settimana #94

Bentornati cari lettori e buon Ferragosto. In questa giornata di relax vorrei aiutarvi a tenere attiva la circolazione con uno schiaffo ben assestato. Meglio che abbiate a portata di mano la crema doposole, perché la pelle brucerà un pochino.

Allora, giusto per mettere le cose in chiaro, sto per parlarvi di Ritorno al Futuro, primo capitolo della trilogia simbolo e cardine degli anni ’80. Pensando alle avventure di Marty e Doc, sono principalmente due i pezzi che devono (sì, devono) venire in mente; il primo è Johnny B. Goode (ne abbiamo parlato anche qui) e il secondo è naturalmente The Power of Love, scritto come tema per il primo film. Huey Lewis non aveva mai lavorato per il cinema e quando Robert Zemeckis gli chiese di scrivere un pezzo per il suo prossimo film ambientato negli anni ’80 e ’50 rispose picche. Il regista insistette, spiegando che non doveva per forza scrivere qualcosa inerente ai viaggi nel tempo e che, di fatto, aveva carta bianca. Il cantante accettò e iniziò a buttare giù la bozza di quella che diventerà The Power of Love. Evidentemente quello era un periodo di “prime volte” per Huey Lewis perché Zemeckis gli chiese anche di apparire in una delle scene del film, cosa del tutto inedita per lui. Ed eccolo lì, nella scena in cui Marty si presenta con la propria band a un’audizione, tirare su il megafono ed escluderli perché “troppo rumorosi”, proprio mentre suonano le prime note di The Power of Love. Una curiosità: sapete perché a Marty non viene dato nemmeno il tempo di cantare il primo verso del brano? Perché quando la scena fu girata il testo semplicemente ancora non esisteva!

Ulteriore curiosità: alla fine Huey Lewis, forse perché nel frattempo si appassionò al progetto, scrisse davvero un brano inerente alle vicende narrate nel film. Si tratta di Back in Time e lo si può ascoltare durante i titoli di coda.

Lo schiaffo della settimana #93

Allora, non vi sarà sicuramente sfuggito che quest’anno è ricorso il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna. Bene, anche noi, nel nostro piccolo e con un po’ di ritardo, vogliamo celebrare la ricorrenza. Ecco quindi un piccolo ma potente schiaffo servito per voi con amore e passione.

Come è facile immaginare anche per chi, come noi, è nato in seguito, il 20 luglio 1969 l’attenzione mondiale è focalizzata sui tre astronauti dell’Apollo 11 che si preparano all’allunaggio. Televisioni e radio coprono l’evento del secolo con lunghe dirette e ognuno, a proprio modo, cerca di raccontare il fatidico momento del primo piede sul suolo lunare nel miglior modo possibile. La BBC propone un curioso contorno all’impresa, intrattenendo i telespettatori con musica e letture dal vivo. A interpretare poesie e brani dedicati al nostro amato satellite sono presenti in studio un certo Ian McKellen e Judi Dench, ma, attenzione, chi c’è lì vicino a Gandalf? In un altro angolo dello studio quattro ragazzotti coi propri strumenti musicali si stanno infatti preparano a suonare in diretta televisiva. Benché giovani, hanno già avuto modo di apparire in TV, ma non c’è bisogno di sottolineare come quella di stasera sia un’occasione a dir poco speciale. Il gruppo attacca e per sette lunghi minuti improvvisa – sì avete capito bene: improvvisa! – un pezzo che solo parecchi anni dopo verrà pubblicato come parte di una raccolta. Loro sono i Pink Floyd e il brano è Moonhead. Buon ascolto e, anche in assenza di gravità, attenti a non inciampare.

Lo schiaffo della settimana #91

Ci sono canzoni a dir poco leggendarie e che non hanno bisogno di presentazioni. È certamente il caso di Free Fallin’ di Tom Petty, uno di quei brani che regolarmente vengono eseguiti quando, nelle serate tra amici, spunta una chitarra.

La chicca con cui vorrei deliziarvi oggi però non riguarda direttamente il pezzo, ma il video musicale che lo accompagna. Diretto da Julien Temple, il video rappresenta una novità per i tempi e mostra, con punti di vista decisamente originali, alcune situazioni tipiche della vita losangelina. In particolare, verso la fine della canzone la protagonista si esibisce con alcuni skaters sulle tipiche rampe presenti in città. Questo potrebbe apparire oggi come una trovata scenica alquanto banale e ovvia, ma, badate bene, alla fine degli anni ’80 lo skate e in generale gli sport non convenzionali erano ben lontani dall’essere considerati mainstream o, semplicemente, noti al grande pubblico. A cimentarsi in evoluzioni a bordo della tavola a rotelle, niente po’ po’ di meno che il leggendario skater Mark Rogowski, detto Gator.

Se non vi è bastato lo schiaffo a sfondo sportivo eccone un altro. Petty presentò Full Moon Fever, album in cui appare Free Fallin’, alla sua etichetta, la MCA, la quale però rimase fredda, non vedendo in esso una particolare hit. Abbacchiato, la sera stessa andò a cena con alcuni amici a casa del capo della Warner Bros. Records. Si dà il caso che uno degli amici di Petty fosse un certo George Harrison, il quale impazzì per Free Fallin’ e la suonò a chitarre spiegate tutta la sera. Mo Ostin, il capo della Warner, si offrì addirittura di produrre lui stesso l’album, ma avrebbero comunque dovuto aspettare che Petty onorasse il contratto con l’attuale etichetta discografica. Le cose andarono comunque bene in seguito, alla MCA arrivarono nuovi manager che apprezzarono l’album e Free Fallin’ divenne il successo che ancora oggi ci schiaffeggia.